
Trascorsi quarant'anni da quel giorno maledetto, i mottolesi Angelo Catucci e Livio Francavilla possono raccontare che c’erano. Erano entrambi allo stadio dell’Heysel la notte della finale della Coppa dei Campioni 1985, la notte della strage. Vennero travolti nell’abisso, pensarono di essere morti e che lo fossero i loro amici. Trentanove, infatti, da quello stadio, non fecero mai ritorno. Doveva essere un bagno di folla, invece fu un bagno di sangue.
Oggi Angelo e Livio hanno quasi 70 anni a testa. Allora erano due giovani appassionati di calcio, con meno problemi per la testa e qualche capello in più. La Juventus di Trapattoni e Platini era, in quegli anni, sempre in cima alla classifica e ai pensieri. Avevano girato parecchi stadi anche all’estero, avevano festeggiato lo scudetto bianconero a Catanzaro. Il sogno proibito era vedere la coppa dalle grandi orecchie sollevata sotto ai loro occhi, ma furono testimoni anche di tutt’altro. Due testimoni come fossero uno solo.
Basterebbe aprire le virgolette adesso e non chiuderle più: «Durante il viaggio eravamo pieni di entusiasmo e di speranze» ricorda Angelo. Gli fa eco l’amico: «Pensavamo di non arrivare mai, girammo a lungo in Francia per evitare le stesse strade degli hooligans». Eppure a una stazione di servizio incrociarono proprio un gruppo di tifosi inglesi. «Ci scambiammo persino la sciarpa» dice Livio. Un gesto amichevole prima di quelli che macchieranno per sempre i ricordi intimi di ognuno di loro.
Arrivarono a Bruxelles il giorno stesso della finale. Fu subito tutto chiaro: «Di prima mattina c’erano inglesi ubriachi a ogni angolo della strada, bevevano whisky e birra, erano su di giri». Girarono al largo fino a sera, sembrava quasi tranquillo: «Ci fecero entrare da una porticina, accovacciati sotto i cavalli di due gendarmi, fu umiliante», dicono in coro. Appena dentro, l’Heysel fu un’amara sorpresa. Si aspettavano di meglio: «Era peggio del campo di Mottola», lamenta Angelo. Livio aggiunge: «Le tribune erano pericolanti a vista d’occhio, bastava toccare le gradinate perché venisse giù il cemento».
Erano gli stessi calcinacci che gli hooligans cominciarono a lanciare verso la maledetta Tribuna Z. Angelo e Livio osservarono la strage dal settore opposto, quello assegnato agli ultras della Juventus. Fu un incubo: «Sembrava una fisarmonica con un vuoto al centro», racconta Angelo. «Capii subito che era successo qualcosa – continua l’amico – origliando da una radiolina in francese». Anche se il bilancio delle vittime fu chiaro solo alcune ore dopo, quando ormai tutto era compiuto e la Juventus era campione d’Europa.
Impiegarono cinque giorni per tornare a Mottola. Due per dare notizie ai familiari di non starsi a preoccupare, che il peggio era passato. Come all’andata, anche al ritorno fecero tappa a Torino. C’era uno striscione agghiacciante: «39 sono pochi». Giunti in autobus vicino al Bar delle Poste, attorno a loro si radunò una piccola folla. «Dicevano: “Sono loro, i sopravvissuti”», prosegue Angelo. «Ma una partita così non si poteva giocare – scuote la testa Livio – fu una tragedia causata da una serie incredibile di errori delle autorità belghe e dell’Uefa».
I due sono rimasti amici e a quarant’anni da quella tragedia ricordano quel giorno come fosse ieri e provano la stessa paura. Livio è stato fortunato: «Avevo un biglietto per la Tribuna Z, per uno scherzo del destino dovetti cambiarlo». E oggi è qui a condividere quei momenti: «Per un anno e mezzo non misi piede in uno stadio, poi la passione per il calcio ha vinto». Anche Angelo è tornato allo stadio a vedere giocare la Juve: «È vero, ma non è stato più come prima. Ogni volta che ho visto tifosi muoversi, qualche urlo di troppo, la memoria è tornata a quella notte». A quella notte in cui il calcio perse la sua innocenza, alla notte dell’Heysel.
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