La prerogativa non comune di poter utilizzare un acquedotto comunale esclusivo è dovuta al grande lavoro degli amministratori nell’Ottocento.
Nel 1862, quando i castellanetani erano da poco diventati sudditi del Savoia re Vittorio Emanuele II, si decise di dare una svolta al problema dell’approvvigionamento idrico che avveniva utilizzando i pozzi vicini al convento di san Francesco dove si estraeva un’acqua buona e famosa per le sue qualità.
Ma i pozzi erano troppo lontani dal paese e sorse la necessità di creare una nuova fontana (tecnicamente diremmo un punto acqua) in prossimità dell’abitato “per lo pubblico vantaggio”.
“E’ noto che la fontana, decché di presente questo pubblico si avvale, dista da questo abitato un miglio circa e quindi incomodo per quei cittadini che sentono quotidianamente il bisogno di aver l’acqua”.
Nella discussione di consiglio comunale del 7 giugno 1862, sindaco Andrea Sarapo, furono individuate due possibilità per far arrivare l’acqua fino all’Orto delle Monache (poi Largo Fontana e oggi piazza Umberto). Si poteva far arrivare dai pozzi di san Francesco (secondo l’utilizzo corrente) oppure farla scendere dalle alture di “Menzullino, che presso a poco ha la medesima distanza dal primo”.
L’alternativa prescelta nella proposta di Giunta era stata la sorgente di Menzullino per ovvi motivi e cioè “pel declivio naturale che si ha lungo il cammino da detta sorgente” e a questa proposta si uniformò il Consiglio “sulla considerazione che l’acqua sorgente di Menzullino sia sufficiente, di più breve cammino di quello di san Francesco, e più facile ad aversi pel declivio che serba lungo la strada”.
Passò qualche anno per la redazione del progetto e le difficoltà tecniche non mancarono. Difficoltà superate con la scelta di un’altra sorgente e cioè il Pozzo della Noce, in contrada Renella.
Così si decise il 6 aprile 1867 (Consiglio presieduto dall’assessore facente funzioni di sindaco signor Logroja Tommaso). Il progetto, redatto dal geometra Girelli Maurizio, fu sottoposto all’approvazione del Genio Civile della Provincia (Lecce) ed ebbe molte osservazioni: a parte quelle sullo scavo, sul diametro dei tubi, sulla presenza di alcuni tratti orizzontali, sulle modalità di esecuzione e sulla necessità di avere castelli sfiatatoi dell’aria, le osservazioni riguardarono anche la fontana stessa, consigliando una fontana a due vasche sovrapposte per evitare sciupìo di acqua.
Osservazioni non accolte in Consiglio in quanto “la sorgente non è così rigogliosa ed esuberante da poter dare da sé acqua sufficiente continua e perenne” e inoltre (sulla fontana) “giacchè lo zampillo non essendo perenne, ma di semplice abbellimento, si può chiudere ed aprire a discrezione del Municipio”.
Raccomandata poi la buona qualità dell’argilla, presa da siti locali, “lavorata e cotta come sanno fare i figuli locali con prodotti inalterabili agli acidi e alle azioni atmosferiche” e realizzati in breve tempo nella quantità voluta. Dunque era stato deciso di utilizzare tubi di terracotta, prodotti localmente e posti in opera nello scavo “dopo averli uniti con pasta da fontaniere, conguagliati e fermati a beverone di malta”.
Il nuovo progetto, uniformato alle nuove decisioni del Consiglio andava nuovamente sottoposto al parere del Genio Civile ma bisognava far presto perché incombevano i lavori della ferrovia “con la presenza di circa quattromila operai addetti alla costruzione della ferrovia da Bari a Taranto” e bisognava dar da bere a tanta gente. Il progettista per questo fu autorizzato a recarsi personalmente a Lecce a concordare l’approvazione nel più breve tempo possibile.
Fu costruito l’acquedotto, lungo 5880 metri fino alla fontana, intercettando tutte le sorgenti del Pozzo della Noce mediante una trincea e portando l’acqua in un secondo serbatoio posto in località san Martino dove venivano decantate e quindi incanalate verso la fontana. Ben presto però ci si accorse che non tutto funzionava a causa di difetti progettuali.
Negli anni in cui si realizzò l’acquedotto, Mauro Perrone non era ancora amministratore ma solo un giovane ingegnere in grado di giudicare i fatti. E nel suo volume di storia su Castellaneta, scritto più tardi [1896], espresse un severo giudizio sul primo progetto, quello che poi fu rifatto: ”...i tubi di argilla rozzamente lavorati dai nostri figuli, essendo la pendenza appena dell’uno per mille, erano inadatti a menar l’acqua pel lungo percorso. Tardi allora il municipio si avvide come l’autore del progetto non fosse che un imperito ciabattone”.
(continua)
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